La chiesa di Cavalier

“Giungendo da Oderzo o da Chiarano, più o meno a metà strada si erge la bianca icona della chiesa di Cavalier, che si prende lo spazio di protagonista in questo pezzo di pianura veneta, affacciandosi sul Piavon (derivazione della Lia e perciò stesso figlio della Piave).

Del resto, i benedettini che con ogni probabilità la fecero sorgere Settecento anni or sono, sapevano dove costruire, così come sapevano bonificare e rendere feconde terre inospitali con sapienza ingegneristica che anticipava di gran lunga i moderni e, di conseguenza, favorirono l’antropizzazione e lo sviluppo, non soltanto di queste terre ma di tutto il continente europeo che, allora, poteva certamente definirsi cristiano.

Sul timpano, una scultura del Redentore, opera dell’eccellentissimo Beato Claudio Granzotto, conterraneo di Santa Lucia di Piave e Minore di Santo Francesco; posto lì a evidente protezione della intera vita dell’uomo e degli impeti della natura. La chiesa, che è stata interessata da diversi rifacimenti e adattamenti agli stili architettonici delle singole epoche, in tempi più recenti ha “restituito” le tracce di diciotto affreschi di sicuro pregio, che meriteranno un adeguato recupero e  “vestizione”.

Di questo e di altri aspetti artistici ha narrato con precisione storica e rassicurante passione, Maria Teresa Tolotto in una domenica pomeriggio d’inizio maggio del 2018.

Fino al 1624 la chiesa era intitolata a san Daniele Martire (vissuto probabilmente all’epoca di Diocleziano), santo compatrono di Padova e caro ai benedettini. Da quel momento in avanti la titolazione, in linea con i cambiamenti storici e artistici (forse anche ecclesiastici) dell’epoca passa a san Daniele Profeta, e tutt’ora è così.

Il 21 luglio, il calendario liturgico ricorda proprio il santo; quest’anno nel giorno di sabato. Ecco che la tenace Maria Teresa, affiancata da un valentissimo gruppo di giovani del luogo ha presentato una serata – accolta da una chiesa gremita – , partendo dalla Pala dell’altare maggiore, che ritrae appunto il santo. Si è trattato però di una serata particolare, dedicata – più che all’arte sacra (anche se ci sono stati puntuali richiami artistici e storici) – a quella che potremmo definire catechesi artistica e, forse più ancora, evangelizzazione artistica. Di solito, gli eventi d’arte sono roba per addetti ai lavori o per appassionati; la resistenza media dell’uditorio è perciò piuttosto bassa. Quella serata invece, i giovani l’hanno pensata e realizzata con i tempi “giusti”, alternando storia, arte e intervalli musicali. Tutti giovani capaci, ben s’intenda, tanto che tra i presenti, molti si chiedevano se si trattasse di professionisti giunti da altrove. Alle voci narranti di Alberto Pessa, Daniele Manzato, Serena Panighello, Carola Favretto, Lara Pivesso, Elena Soldan, Federica Forner, Daniela e Marianna Patres, hanno fatto da splendido contrappunto musicale Elena Beni al violino e Sara Zanchetta, arpa e tastiere.  Il cuore del momento si è mostrato proprio nella narrazione dell’evento biblico intorno alla vita del profeta Daniele.

La chiosa finale ha recuperato alcuni elementi degli affreschi presenti in questa chiesa che, davvero è un gioiello d’arte e di spiritualità: «I quattro profeti, posti nei quattro angoli della navata, rafforzati dalla presenza di Daniele nel presbiterio, accompagnati dai 12 apostoli sulle pareti, sostengono noi, popolo di Dio, che celebriamo riuniti in assemblea la gloria di Dio attraverso gli insegnamenti di Cristo. Ci insegnano la Fedeltà, la perseveranza, il rinnovamento interiore che non può non passare per il sacramento della Confessione. Chi crede in Dio non può che credere nella vita eterna. E se crediamo nella vita eterna non possiamo non preparare il nostro ingresso con la frequenza al sacramento della Confessione. Questa, forse, la motivazione per cui Don Attilio Maria Gaia abbinava a San Daniele Profeta il titolo di Confessore». Il riferimento al parroco degli anni Venti, che tanta parte ebbe nella ristrutturazione e rifacimento della Chiesa è riferimento al valore di redenzione dei sacramenti. E ciò che emerge è la chiara testimonianza di fedeltà alla tradizione del Magistero della Chiesa cattolica; se consideriamo che meno del 15% dei giovani frequenta le chiese per la santa messa settimanale, ecco che l’impegno di questi giovani (tra Cavalier e Chiarano c’è anche la presenza di “Sentinelle” della fede cattolica) assume un valore distintivo. Si può essere persone per bene anche senza frequentare la Chiesa; ovvio. Epperò… rinunciare alla santa messa – per esempio – significa rinunciare ai sacramenti, al valore salvifico della Morte e Risurrezione di Cristo: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in Voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6, 51-58)». Questo, nel rispetto di ogni visione dell’uomo e del mondo – che siano quantomeno filantropiche -, è ciò che appartiene a chi non ritiene sufficiente un blando umanesimo che riduce la vita umana ad un evento puramente biologico e animale e la consegna alla fossa della corruzione. Degli effetti poi, del blando umanesimo è possibile verificare ad ogni interstizio “comunicativo” così invadente e anestetizzante in questo tempo che, dimentico della fatica della civiltà, celebra il vizio come modus vivendi et operandi, consegnando all’oblìo persino le virtù tanto care ai Filosofi delle origini (sicuramente ai più grandi). Un umanesimo che essendo privo di solidi riferimenti al trascendente, fa percepire pure la Chiesa cattolica come una benemerita organizzazione di soccorso sociale; ma non è questo il primo fine della Chiesa cattolica (né della Caritas a dire il vero, a proposito di soccorso sociale), per quanto apprezzabile. Altri spazi e momenti, sarebbero necessari per fornire al lettore chiarimenti più importanti. Ci basti, al momento, la testimonianza confortante dei giovani di Cavalier. Un fatto che fa bene al cuore, almeno di chi è consapevole della misura del portato del Cristianesimo nella vita e nella storia di queste terre e, più in generale, nella cultura d’Occidente.”

tratto dall’artico de “Il Dialogo” a firma Giuseppe Manzato (Docente di Sociologia, Facoltà Teologica del Triveneto Padova e Università Ca’ Foscari di Venezia).